di Adriano Minardi Ruspi
La visione delle prima puntata della serie Tv «Il figlio del secolo» ci ha richiamato alla mente l’eterogenesi dei fini, il principio formulato dal filosofo e psicologo tedesco Wilhelm Wundt «secondo il quale le azioni umane possono riuscire a fini diversi da quelli che sono perseguiti dal soggetto che compie l’azione».
Per l’Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani insieme con Giovanni Gentile, l’eterogenesi dei fini avverrebbe per il sommarsi delle conseguenze degli effetti secondari dell’agire che ne modificherebbe gli scopi originari e farebbe nascere nuove motivazioni di carattere intenzionale.
Ora se noi applichiamo questo principio alla vicenda legata all’avvio della serie Tv dedicata a Mussolini, tratta dal primo volume dalla quadrilogia di Antonio Scurati, non possiamo che riconoscere nella trasposizione televisiva le caratteristiche del principio enunciato.
Il battage mediatico de «Il figlio del secolo»
Partiamo dalle premesse. La serie è stata annunciata attraverso una campagna propagandistica ed un battage mediatico di tutto rispetto, come si conviene ad una produzione dai costi elevati, che ha impegnato i lavori della troupe per un lungo periodo di tempo e che, presumiamo, avrà anche delle code negli anni successivi.
Tutto questo testimonia l’importanza che il network televisivo ha assegnato all’opera, accompagnata anche da una presentazione aggressiva, strutturata su un doppio gioco di demonizzazione e caratterizzazione forte del soggetto.
Come già è stato rilevato da più parti, l’opera in sé è certamente ben fatta sotto il profilo tecnico, innovativa nelle tecniche di inquadramento e proposizione dei quadri narrativi, quantomeno accattivante anche se non estremamente originale, caratteristiche che la rendono sicuramente un prodotto gradevole ma, è questo il punto, di pura fantasia.
Quello che manca è il rispetto del quadro storico e questa non è una particolare novità nella vicenda perché sin dal momento della pubblicazione in libreria di ogni singolo tomo (da cui è tratta anche la prima parte della serie), da più parti si è rilevata l’assoluta incongruenza tra il dato storico e la produzione letteraria.
Opera di fantasia, non ricostruzione storica
Ernesto Galli della Loggia prima, Giordano Bruno Guerri poi e, da ultimo, Antonio Carioti, come anche Pierluigi Battista e Marco Travaglio, tutti sul carro della critica con osservazioni di carattere diverso ma sostanzialmente unanimi nel considerare l’opera letteraria come altro rispetto ad una ricostruzione operata secondo un rigoroso metodo storiografico.
Il problema non è mai stato, quindi, quello di contrapporre letteratura a storia ma solo evidenziare le diverse modalità di approccio a un soggetto o ad un tema e, quindi, invitare ad una lettura prima e ad una visione ora, più critica e avvertita sul tema delle differenze di metodo e di approccio.
Questa contraddizione non poteva che esplodere in maniera forte nel momento in cui l’opera è diventata oggetto di una narrazione cinematografica proprio per la maggiore presa e attenzione sul pubblico che ha una serie televisiva, fruibile da un pubblico indifferenziato, ed anche per il clamore suscitato dalle dichiarazioni che hanno accompagnato l’uscita della serie.
La «sofferenza» di Marinelli
A partire dalle affermazioni, definite dai più come improprie e incongrue, del protagonista della serie Luca Marinelli. L’attore che ha impersonato Mussolini ha tenuto a precisare e ribadire la sofferenza che lui — antifascista convinto — avrebbe patito nell’interpretazione di Mussolini, meglio noto da oggi come «il malvagio del secolo».
Questa impostazione non poteva che riprodursi all’interno della trasposizione televisiva ed ha finito paradossalmente per evidenziare e marcare la volontà di costruire una narrazione legata ad un pregiudizio di fondo con l’evidente volontà di farne uno strumento pedagogico rivolto al grande pubblico.
Non conterebbe più nulla allora la fedeltà al dato storico ed una ricostruzione psicologica dei personaggi vicina alla realtà ma solo ciò che è funzionale ad una prospettiva di divulgazione fondata sulla volontà di demonizzazione e di costruzione/distruzione dei singoli protagonisti.
L’ottica chiaramente pedagogica dell’opera è stata del resto ribadita ripetutamente dai cultori dell’opera di Scurati e da questi considerata come mezzo necessario ed utile per far pervenire al grande pubblico un messaggio di totale demonizzazione di tutto il periodo.
Un cinegiornale Luce rovesciato
Una condanna senza se e senza ma, totalmente priva di sfumature, in assenza del dato storico e con la totale omissione delle evidenze maturate negli ultimi anni in campo storiografico.
Un’operazione tutta giocata sul terreno della propaganda, con evidenti strizzatine d’occhio alla situazione politica attuale, italiana e non. Una sorta di cinegiornale Luce rovesciato nel suo opposto di denigrazione, più che un’opera di ricostruzione storica.
Quale altro senso avrebbe nella rappresentazione dei personaggi chiave della vicenda rispetto allo stesso Mussolini, la rappresentazione del mondo fascista come un circo di belve assetate di sangue che il domatore neanche riesce a tenere a freno?
Quale la rappresentazione di figure importanti in quel periodo della vita di Mussolini come Margherita Sarfatti, una delle maggiori intellettualità dell’epoca, presentata come una sorta di prostituta in servizio permanente effettivo, contrapposta alla figura di Rachele Guidi, definita solo nella sua rozzezza ed ignoranza contadina?
Oppure, peggio ancora, la descrizione di Filippo Tommaso Marinetti come una sorta di giullare a comando alla corte della Sarfatti, quasi come un pazzo blandito solo perché suscitava curiosità o ilarità nel mondo intellettuale.
Come se intorno alla vita di Mussolini ruotassero solo e necessariamente criminali, pazzi — e puttane se si tratta di donne —, mentre tutta questa visione apocalittica è stata completamente demolita dalla storiografia, recente e non, partendo da Renzo De Felice per arrivare ad Emilio Gentile, come puntualmente emerso nel dibattito che si è acceso con l’uscita della prima puntata e che ha visto, come detto, la partecipazione critica di larga parte del mondo giornalistico e storico.
Molte e autorevoli le perplessità
Molte penne autorevoli, sicuramente lontane da qualsiasi visione agiografica di Mussolini, hanno manifestato perplessità sull’operazione in ordine non solo alla sua labile aderenza storica, sostituita da un criterio di pura propaganda politica con l’intento di veicolare, attraverso un messaggio di demonizzazione, l’eterna tesi del pericolo di un ritorno al fascismo sotto mentite spoglie, tesi peraltro molto cara a Scurati stesso.
Perché parliamo di eterogenesi dei fini allora? Perché non siamo convinti che quest’operazione di pedagogia storico politica applicata alle masse conquisterà così facilmente il cuore e la mente dei telespettatori/lettori.
Anzi, siamo convinti esattamente del contrario perché già l’aver pubblicizzato la serie con enormi cartelloni con le sue frasi ad effetto, ha evidenziavano la peculiarità dell’uomo Mussolini, la sua presenza fantasmatica a oltre cento anni dalla nascita del fascismo e la sua persistente invadenza nel dibattito pubblico e giornalistico italiano.
Descrivendolo come un animale politico che fiutava il cambiamento della storia e lo cavalcava, già in qualche modo si contribuisce ad avvicinarlo al grande pubblico con un approccio di curiosità e non necessariamente di disgusto.
I limiti e i rischi della parodia
C’è poi un altro aspetto che gli zelanti custodi della memoria orientata non hanno probabilmente considerato fino in fondo.
Quando si cerca di costruire un personaggio in chiave esclusivamente caricaturale esacerbando, esasperando gli aspetti negativi e puntando solo esclusivamente ad una raffigurazione demoniaca dell’uomo e del quadro storico, inevitabilmente si rischia di creare un effetto attrattivo opposto rispetto a quello voluto e questo, crediamo, sia il rischio maggiore di questa operazione.
Se prevalgono le critiche, i distinguo, le puntualizzazioni rispetto all’esaltazione acritica, se in molti casi gran parte del pubblico distingue e scinde il giudizio sulla produzione artistica dal giudizio sul contenuto (basta un giretto sui social per verificarlo), vuol dire che si apprezza lo spettacolo per i suoi contenuti scenici, come si apprezza una bella caricatura o un bel cartone animato, ma non una sostanza non rappresentata dalla narrazione, di cui è esclusivamente la parodia, con i suoi personaggi degradati a clown, scimmie o comunque, nella peggiore delle ipotesi, a bestie incapaci di pensare.
Forma estetica, figurazione scenica accattivante, capacità interpretative possono piacere sicuramente al grande pubblico, ma spessore narrativo e mancanza anche solo di verosimiglianza non contribuiscono a creare una pedagogia politicamente corretta o anche solo ad incentivare lo studio della storia.
Esattamente l’effetto opposto a quello voluto o sperato.
Zero assoluto in storia, quindi, e bocciatura secca. Un’altra occasione persa.
Adriano Minardi Ruspi