Nino Benvenuti, è venuto a mancare il 20 maggio scorso. Non serve richiamare, più di tanto, la sua figura, se non per il doveroso omaggio ad un italiano e sportivo d’eccezione.
Nato a Isola d’Istria, nella zona B del territorio libero di Trieste controllato dall’esercito jugoslavo, fu costretto a emigrare nella zona A controllata dall’esercito alleato, a causa della persecuzione subita, compreso l’arresto arbitrario del fratello.
Il pugilato rappresenta per lui, come per coloro che nascono senza avere nulla, il punto di appoggio di una risalita. Forse per questo è riuscito a far brillare il rispetto per l’avversario sopra la competizione, anche dura. Ed è questo che lo ha reso unico, un modello.
Un talento cristallino
La classe cristallina, la tecnica pulita e misurata con cui circondava l’avversario di colpi, cucendogli, come un sarto, le combinazioni addosso, esaltavano un aspetto, forse il più bello, almeno per me, del pugilato.
La categoria dei medi, di cui è stato re indiscusso alla fine degli anni 70, esprime insieme eleganza e forza, producendo una mobilità che difficilmente può sopportare un peso massimo, ma con tempi che sono apprezzabili all’occhio comune, non come le categorie di peso inferiore che sembrano muoversi alla velocità della luce.
Forse è la vera categoria regina, anche se l’esaltazione della forza bruta che, in segreto, venerano tutti gli sportivi, ha fatto si che lo fosse sempre la categoria più pesante.
I canoni del mondo della boxe erano quelli espressi dalla battaglia sanguinaria di San Valentino, 14 febbraio 1951, con il massacro di Jake La Motta che si rifiutava di cadere sotto il maglio, sontuoso, ma pesante, di Sugar Ray Leonard.
I match contro Emile Griffith
L’aspetto ferino, anche mortale, di questo sport incrocia il destino dell’avversario storico di Benvenuti, Emile Griffith.
Il 24 marzo del 1962 Emile Griffith combatte con il cubano Benny Parret per la terza volta, un avversario temibile che alla 12a ripresa viene sorpreso da due colpi mentre è all’angolo. Apre la sua difesa e Emile Griffith si avventa con 18 colpi in 6 secondi al viso mentre il Parret non riesce accadere per farsi contare.
L’arbitro si fa largo troppo tardi per fermare il match, Parret è a terra mentre un cinico speaker annuncia la vittoria di Griffith e lo allontana mentre cerca di sincerarsi delle condizioni di Parret. Sono scene dure, che testimoniano la spietatezza dello show business. Nel 2005 un documentario ritrae il vecchio campione accolto e perdonato dal figlio di Parret.
La trilogia vittoriosa di Benvenuti, proprio contro Emile Griffith, testimonia il cuore da combattente del nostro campione.
Il 17 aprile 1967, al Madison Square Garden di New York, Benvenuti strappò a Griffith il titolo mondiale dei pesi medi in un match memorabile che tenne incollati alla radio milioni di italiani. Emile Griffith si prese la rivincita pochi mesi dopo, ma il terzo e decisivo incontro, il 4 marzo 1968, vide Benvenuti riconquistare definitivamente la cintura.
Le sconfitte contro Carlos Monzón
Un altro capitolo fondamentale della sua carriera furono i due match contro l’argentino Carlos Monzón, un pugile temibile e all’epoca poco conosciuto ma con un record impressionante.
Il primo incontro, il 7 novembre 1970 al Palazzo dello Sport di Roma, vide Monzón conquistare le cinture Wba e Wbc dei pesi medi per Ko tecnico al 12° round.
La rivincita, l’8 maggio 1971 a Monte Carlo, fu altrettanto dura e vide Monzón imporsi nuovamente. Dopo questo secondo incontro, Benvenuti annunciò il suo ritiro, chiudendo la carriera con un record di 82 vittorie (35 per Ko), 1 pareggio e 7 sconfitte su 90 incontri disputati.
Fu uno dei pochi pugili nella storia a detenere il titolo mondiale in due categorie di peso: i superwelter (1965-1966) e i medi (1967-1970), ma il suo trofeo più bello, almeno a mio parere, è la coppa Val Barker come miglior pugile tecnico del torneo, davanti nientemeno che a un giovane Cassius Clay (futuro Muhammad Ali), alle Olimpiadi di Roma (1960) dove conquista anche l’oro nei pesi welter.
Nino Benvenuti fuori dal Ring
Nonostante la ferocia degli scontri sul ring con Emile Griffith, tra i due pugili si sviluppò un profondo rispetto e una duratura amicizia, tanto che Benvenuti fu padrino di cresima di uno dei figli di Griffith e gli rimase accanto quando quest’ultimo fece coming out, dichiarando la sua omosessualità.
Pare che al peso dell’incontro tra Parret e Griffith, quello che costò la vita al primo, il pugile cubano si fosse rivolto all’avversario chiamandolo maricon (frocio).
Nel 1992, l’anno in cui Benvenuti entra nella Hall of Fame Usa, Griffith fu aggredito per strada in un linciaggio omofobo fuori da un locale gay ad Ottawa.
In fin di vita perderà comunque un rene a causa del pestaggio subito con mazze da baseball. Benvenuti, uomo di destra, volò negli Stati Uniti minacciando apertamente gli aggressori, di farsi avanti, contro di lui.
In povertà e aggredito dalle malattia, venne aiutato dal pugile italiano, anche economicamente, con spettacoli teatrali e i diritti di alcune pubblicazioni e traduzioni dei racconti dei loro incontri.
Andò a trovare in carcere anche Monzon accusato dell’omicidio della sua terza moglie, per assicurarsi sulle sue condizioni di detenzione.
Di loro Benvenuti disse: «Non puoi che essere amico di uno con cui hai fatto a cazzotti per 45 round». Riesce anche a cucire il rapporto con il rivale storico Mazzinghi, riservandogli elogi inaspettati e poetici. Un uomo certamente controcorrente, libero. Un uomo che ha subito anche i colpi duri della vita.
Il rapporto burrascoso con uno dei due figli, Stefano morto suicida a 58 anni, durante il Covid, mentre era in regime di detenzione domiciliare, in un periodo nel quale tutti eravamo più fragili, deve essere stata una dura prova per il campione. Ma il suo cuore è riuscito a sopportare anche questo colpo basso.
Nel 1996 vola con la Caritas a Madras, in India, in un centro di ricovero per lebbrosi. Sta a contatto diretto con la sofferenza, lavando e pulendo le persone bisognose.
Nino Benvenuti lascia un vuoto nel mondo dello sport italiano e internazionale, ma il suo ricordo rimarrà indelebile come quello di un campione sul ring e nella vita, un «gentiluomo» che ha saputo rappresentare l’eleganza della boxe e l’orgoglio di una nazione.
Armando Mantuano