di Adriano Minardi Ruspi
È notizia di questi ultimi giorni l’avvenuta pubblicazione per i tipi di Mimesis International dell’edizione inglese del saggio di Giovanni Gentile Genesi e struttura della società, curata e tradotta da Spartaco Pupo, che colma il vuoto di una prima edizione del 1966 ormai fuori commercio.
Si tratta, come noto, dell’opera-testamento del filosofo siciliano, una vera e propria summa del pensiero gentiliano, che viene ora riproposta al pubblico anglosassone a testimonianza del perdurante interesse che l’opera del filosofo suscita ancora nel panorama culturale europeo.
Di converso, lo spettacolo sinora offerto dal contesto culturale italiano è stato di assoluta e pressoché totale desolazione.
A 150 anni dalla nascita del filosofo e ad 81 dal suo assassinio a Firenze per opera di un commando gappista, la cultura italiana, o meglio, quella parte di essa ancora dominata dalle tossine ideologiche della guerra civile, ancora non riesce ad imbastire una riflessione quantomeno pacata sull’uomo Gentile, sulla sua opera e sul ruolo avuto nella cultura italiana del Novecento come organizzatore della struttura culturale del paese, di cui pose indiscutibilmente le basi negli anni Venti e Trenta ed i cui Istituti, peraltro, ancora gli sopravvivono in larga parte.
Ancora oggi, qualsiasi tentativo di commemorarne pubblicamente la figura, attraverso intitolazioni o eventi, si scontra con un rifiuto ideologico basato sulla sua associazione con la politica culturale fascista. Tale condanna totale impedisce una riflessione matura sulla sua opera.
Un filosofia per il fascismo
Negli ultimi anni si sono registrate alcune rilevanti eccezioni e tentativi di analisi obiettiva, tra cui la pubblicazione del volume curato da Marcello Pera Giovanni Gentile una filosofia per il fascismo. Il volume, edito da Rubettino, si concentra sul ruolo rivestito da Gentile nella creazione e codificazione dell’ideologia fascista. Sebbene i contributi contenuti nel libro rappresentino importanti progressi nell’approfondimento e favoriscano lo sviluppo della riflessione, riscontrano comunque difficoltà a generare un dibattito che superi la cerchia degli specialisti e rimangono spesso condizionati dalle critiche di parte, risultando raramente accessibili al grande pubblico.
Gli approfondimenti contenuti nel libro di Pera non sono ancora riusciti a far maturare un giudizio oggettivo e ampiamente condiviso su una figura che ha svolto un ruolo rilevante nella formazione della coscienza culturale italiana.
Si è fatto riferimento agli istituti fondati da Giovanni Gentile durante il regime, i quali hanno continuato la loro attività dopo la sua scomparsa. In particolare, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana fu ideato e gestito da Gentile, talvolta in disaccordo con il regime, con l’obiettivo di fornire, tramite il contributo di figure autorevoli della cultura italiana (indipendentemente dalla loro adesione all’ideologia fascista), le basi concettuali e gli strumenti utili alla costruzione della coscienza culturale nazionale, senza limitarsi esclusivamente alla cultura fascista.
Non fu casuale, del resto, che in tutti questi tentativi di laboriosa operatività, che restano comunque testimonianze del suo rigore intellettuale e della sua assoluta indipendenza di pensiero nella scelta dei collaboratori, i suoi principali nemici furono proprio all’interno del fascismo, in quelle correnti operanti nel regime che consideravano il suo pensiero moderato in qualche modo inquinatore e «annacquatore» del fascismo, cui si aggiungeva l’inimicizia e l’ostilità della cultura cattolica e del Vaticano, risalente alla riforma della scuola voluta da Gentile nel 1923 ed alimentata dalla negativa valutazione gentiliana dei patti concordatari del 1929.
Durante il regime questi elementi di diffusa ostilità costituirono un forte ostacolo allo spiegarsi dei tentativi operati da Gentile, portarono anche al suo sostanziale isolamento negli ultimi anni del regime, e furono in parte gestiti e superati solo grazie al forte rapporto personale che il filosofo intrattenne sino alla fine con Mussolini.
Un dibattito serio, libero, aperto a tutte le tesi ed a tutte le confutazioni possibili su questi temi, in Italia ancora non è possibile per la necessità, una sorta di «a priori» ideologico di definire — ancor prima che di esporre una tesi o un piano di ricerca — un giudizio di natura etico morale di condanna per l’apporto dato da Gentile al fascismo, derubricando quest’ultimo puro e semplice «Filosofo in camicia nera», come sbrigativamente e superficialmente definito in uno degli ultimi lavori biografici a lui dedicati.
Oggi quindi viviamo nella condizione di Paese non ancora pienamente maturo nell’evoluzione della sua coscienza culturale, ancora incapace di scrollarsi incrostazioni e pregiudizi e, peggio ancora, sindromi da guerra civile permanente.
La memoria della guerra civile
Da questo punto di vista, quindi, il recente lavoro di Alessandro Campi, Un’esecuzione memorabile. Giovanni Gentile il fascismo e la memoria della guerra civile, edito da Marsilio, può rivestire un ruolo particolarmente importante perché da un lato segna il ritorno ad un rigoroso metodo di analisi storica e delle idee (metodo che l’autore, peraltro, non ha mai abbandonato in tutti i suoi lavori), fondato sulla ricerca e l’analisi dei documenti, delle testimonianze e degli altri lavori sui temi trattati ma, soprattutto, rappresenta un contributo assoluto e imparziale su un periodo cruciale della vita del filosofo.
Alessandro Campi affronta proprio il periodo finale della vita di Gentile che va dal 25 luglio del 1943, quindi dalla caduta di Mussolini e del regime, e arriva all’adesione del filosofo alla Repubblica Sociale Italiana. Come lui stesso aveva avvertito, l’adesione alla Rsi gli valse la sentenza di condanna a morte, eseguita con l’agguato dei partigiani comunisti del 15 aprile del 1944.
Il saggio non fa sconti a nessuno. Riporta, esamina e confuta tutte le tesi che si sono succedute nel corso degli anni circa le motivazioni che condussero Gentile ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana e ad assumere la presidenza dell’Accademia d’Italia. Un ruolo apicale in una compagine statale appena costituita e traballante visto il prevedibile esito del conflitto mondiale in corso.
Un’esecuzione memorabile
La sua interpretazione considera lo svolgersi degli avvenimenti come tappe di un processo che non poteva che portare alla sua uccisione. Un’esecuzione necessaria perché solo una cesura profonda quale quella rappresentata da una morte violenta, nel suo carattere di atto sacrificale, poteva rappresentare il vero e proprio stacco che sanciva il passaggio effettivo da una fase storico politica ad un’altra, proprio come, di fatto, l’eliminazione fisica di Mussolini e la macabra, da ritualità barbara, esposizione di piazzale Loreto avevano plasticamente rappresentato la fine del fascismo e la nascita della Repubblica Italiana.
L’adesione di Gentile alla Rsi, pur segnata da tormenti e incertezze, si presentava come un esito pressoché inevitabile, rappresentando il culmine di un percorso storico nel quale egli aveva avuto un ruolo determinante, perché profondamente coinvolto nella storia del regime. Allo stesso modo, l’ipotesi della sua mancata eliminazione appare priva di fondamento storico e concretezza, poiché avrebbe mantenuto in vita un elemento significativo di continuità tra il fascismo e la repubblica sorta dalla resistenza.
Gentile, perciò, doveva morire anche perché avrebbe, comunque, rappresentato un elemento di ostacolo alla volontà del Pci di Togliatti di costruzione di un’egemonia in campo culturale — come quella che si sarebbe compiutamente dispiegata sin dal dopoguerra — che non prevedeva certo la sopravvivenza di nemici dichiarati o anche solo possibili.
Anche Benedetto Croce, l’altro grande monumento della cultura nazionale, impossibile da eliminare fisicamente perché comunque non compromesso pienamente col fascismo, sarà destinato a subire un costante processo di demonizzazione nel tentativo di eliminarne o quantomeno di attenuarne il ruolo nella cultura nazionale del dopoguerra.
L’opera offre una sintesi e valutazione delle tesi sia antifasciste che fasciste sul tema. La memoria neofascista si limita a celebrare Gentile come vittima, senza analizzare le motivazioni della sua adesione alla Rsi. Quella antifascista oscilla invece tra il celebrare l’omicidio come atto di giustizia e il mostrarne l’imbarazzo e i sensi di colpa, soprattutto da parte degli ex collaboratori di Gentile.
Tutte riflessioni postume, connotate a volte da conformismo e ossequio ai tempi e qualche volta reticenti ma tuttavia sempre riconducibili alla convinzione che in ogni caso un uomo come Giovanni Gentile, per ciò che aveva rappresentato, non poteva non essere assassinato.
La responsabilità dell’omicidio
Per paradosso, la parte meno discussa nel libro è proprio quella che, al contrario, ha generato maggiore dibattito dal dopoguerra sino ai nostri giorni, rappresentata dall’accertamento degli esecutori materiali, di cui sono oggi ben note generalità e storie personali ma soprattutto sul tema dei mandanti, su chi effettivamente ordinò l’esecuzione e su chi se ne assunse paternità e responsabilità morale e politica. Elemento quest’ultimo facilmente valutabile perché la rivendicazione venne fatta apertamente dal Pci di Togliatti.
La questione della responsabilità dell’omicidio è considerata accessoria nella ricostruzione di Alessandro Campi perché appunto scontata e già sostanzialmente chiara nei suoi caratteri essenziali, ma fondamentalmente perché il tema centrale non è rappresentato da chi ordinò e rivendicò l’uccisione quanto è invece centrale il tema della necessarietà e inevitabilità o meno dell’omicidio a conclusione, secondo la tesi dell’autore, di una fase storica che non poteva che culminare nel suo sacrificio individuale.
L’indagine risulta equilibrata e precisa nell’analizzare le motivazioni che portarono Gentile, ancor prima come uomo che come filosofo o promotore culturale, ad aderire a una Repubblica la cui stabilità appariva compromessa fin dall’inizio, a causa della presenza di alleati ingombranti, oppositori interni e l’acuirsi di una guerra civile dal finale già preannunciato.
Questa valutazione, riferita principalmente a Gentile, si presta tuttavia a una riflessione più ampia sulle ragioni che spinsero molti protagonisti della costruzione del fascismo – soprattutto quelli appartenenti alla prima generazione, spesso successivamente emarginati – a ritenere naturale, necessario e legittimo concludere la propria carriera politica, e spesso anche la propria esistenza, accanto a colui che aveva segnato profondamente il loro percorso storico e personale.
Vi era una combinazione di lealtà personale, adesione ideologica, convinzione politica e giudizio morale soprattutto riguardo agli eventi che portarono alla caduta del fascismo e all’armistizio dell’otto settembre. La figura di Mussolini esercitava ancora influenza su parte della popolazione, alcuni lo vedevano come una possibile guida per affrontare la situazione critica dell’Italia dopo l’uscita dalla guerra, caratterizzata dalla presenza di eserciti stranieri sul territorio e dallo scoppio della guerra civile.
L’analisi delle motivazioni che portarono il filosofo ad aderire alla Rsi si intreccia con le vicende familiari, ricordando anche che fu proprio la famiglia dopo la sua morte ad imporre all’ala radicale del fascismo di non intraprendere azioni repressive che avrebbero potuto avere ulteriori e più gravi conseguenze nel crescente clima di guerra civile.
La famiglia ha mantenuto, sia nel periodo del lutto sia durante il lungo dopoguerra, una posizione distante dalle tensioni della guerra civile; una condotta esemplare che non è stata sempre seguita da parte dell’ambiente culturale italiano, che ancora fatica ad affrontare criticamente sia l’opera di Giovanni Gentile sia la più ampia storia del fascismo.
Larga parte del mondo culturale italiano ancora oggi vive una memoria storica di guerra, che riesuma e ripropone i temi della guerra civile, che vive solo e unicamente di contrapposizione ideologica come se questa guerra civile in realtà non fosse non fosse mai finita.
Un quadro spesso desolante che tuttavia ci consente di apprezzare in modo particolare l’opera di uno studioso come Alessandro Campi che, senza alcun pregiudizio o volontà rivendicativa o ideologica di nessun tipo, contribuisce a ricondurre l’opera di Giovanni Gentile nel solco della grande tradizione culturale italiana, come qualunque paese civile dovrebbe fare.
Adriano Minardi Ruspi
