Il Rapporto Censis 2023 ci rappresenta un’Italia fiacca e demotivata. La diagnosi è obiettiva. O meglio: sembra esserlo perché si basa su una lunga serie di dati. Ma su questo, come vedremo, c’è parecchio da eccepire.
Il 57° Rapporto sulla situazione sociale del paese stilato dagli analisti dell’istituto di ricerca presieduto da Giuseppe De Rita condensa il suo giudizio, e il suo allarme, nel titolo di apertura della sezione principale: «I SONNAMBULI (in maiuscolo, ndr). Ciechi dinanzi ai presagi».
Il succo, per fare una sintesi molto sommaria, è che si sommano due fattori negativi. Il primo è quello reale: il presente del nostro Paese non è un granché positivo e il futuro, di qui al 2050, lo è ancora meno.
La popolazione invecchia e diminuisce di numero, specialmente al netto degli immigrati già presenti e di quelli che potranno arrivare in seguito. Il che significa, tra l’altro, che la spesa sanitaria è destinata a crescere e che viene messo a repentaglio il pagamento delle pensioni.
Ma l’aspetto ancora più preoccupante è il secondo. È quello delle «percezioni». L’atteggiamento che si è ormai propagato nella maggioranza di noi italiani: una maggioranza che quasi sempre supera largamente il 50% e che su alcune questioni, come il peggioramento del clima e le migrazioni di massa, oltrepassa addirittura il 70 per cento. Con una prevalenza dell’ansietà e della sfiducia nel segmento compreso tra i 18 e i 34 anni.
Un altro modo di vivere
Messi di fronte alle crescenti incertezze sull’oggi e sul domani, una percentuale ancora più alta ha adottato quella che potremmo definire una strategia di sopravvivenza personale. Personale e esistenziale. Invece di dedicarsi con rinnovato vigore al miglioramento della propria situazione lavorativa, e quindi reddituale, innumerevoli individui hanno riconsiderato le loro priorità e modificato i propri scopi.
- Per l’87,3% «fare del lavoro il centro della propria vita è un errore».
- Il 94,7 considera «molto importante la felicità delle piccole cose (amicizie, tempo libero, hobby, etc.)».
- L’81 per cento afferma di «essere più attento rispetto al passato al proprio benessere psicofisico (salute, gestione dello stress, etc.)».
Agli analisti del Censis non piace per niente. Parlano di «mercato dell’emotività» e di un «tempo dei desideri minori». La constatazione dei mutamenti diventa un atto d’accusa.
«Il consumo progressivo – scrivono – non è più la forza vitale che trascina gli italiani e li spinge a lavorare di più per generare più reddito da spendere. Insomma, non agiscono più gli ‘eroici furori’ della passata epopea, perché il cambiamento del rapporto con il proprio tempo e la ridefinizione della gerarchia dei valori fanno sì che l’energia individuale, che in passato si traduceva in una spinta collettiva, ora si condensa in una nuova soggettività dei desideri a bassa intensità, che finisce per smorzare il ciclo».
E questo ci riporta alla questione iniziale. La prospettiva con cui si osserva e si giudica.
C’era una volta la Patria
È evidente: secondo il Censis – che sul suo sito tralascia il classico spazio dedicato alla mission e si limita a un auto celebrativo «da oltre 50 anni interpreti del Paese» – la ragione di vita dovrebbe essere fissata nella sfera economica.
A sua volta, per citare solo uno dei commenti apparsi sulla stampa, sulle colonne di Libero Giovanni Sallusti spara a zero su chi non condivide i succitati «eroici furori». Il titolo è lapidario, «Il lavoro c’è, la voglia no». Il sottotitolo è sferzante, «È una Repubblica basata sul far niente: il 74% non vorrebbe più un impiego».
Censis unilaterale, Sallusti grossolano
Inoltre entrambi, e certamente non solo loro, sorvolano sul come si è arrivati alla situazione attuale. Sui modelli di comportamento che si sono diffusi da decenni e decenni, con una poderosa accelerazione a partire dagli anni Ottanta, e che sono imperniati proprio sull’individualismo del «qui e subito».
Una deriva egoistica e spesso infantile. Che è stata resa ancora più dannosa dallo sgretolamento delle identità collettive. La famiglia. La nazione. La patria.
Il corto circuito era ampiamente prevedibile: si era seminata debolezza e si sarebbe raccolta fragilità. Quando le cose avessero smesso di andare per il meglio, non solo per una delle ricorrenti «crisi cicliche» ma con dei cambiamenti così radicati da diventare strutturali, la popolazione non sarebbe stata pronta a sacrificarsi.
Primo: perché non era più abituata a farlo, al di là dell’eventuale dedizione al lavoro, o ad altre attività non esattamente legali, nell’intento di accrescere il proprio reddito. E i propri consumi.
Secondo: perché si riconosceva sempre meno in un interesse generale di stampo comunitario. Tanto più se la distribuzione degli oneri, e dei vantaggi, si fa via via più iniqua.
Lo stato azienda-non scalda il cuore
Piaccia o non piaccia, agli esperti del Censis e a chi la vede in maniera simile, la crescita del Pil non è un sentimento condiviso e vibrante. Lo stato-azienda non scalda il cuore di nessuno. E men che meno lo fanno i diktat della Commissione Europea di Ursula von der Leyen o della Bce di Christine Lagarde.
Il bene comune resta lettera morta, in mancanza di un vero senso di comunità. Se l’Italia è solo uno sfondo accidentale con cui convivere, o a cui sopravvivere, ognuno si destreggerà a modo proprio. In un ripiegamento che sarà anche al ribasso, ma che appare l’unico possibile.
L’entusiasmo di un intero popolo va coltivato per tempo. E solo una potente rinascita dell’idea di nazione può invertire questa tendenza a rifugiarsi nel bozzolo, rinunciatario, del giorno per giorno.
Gerardo Valentini